Molti di voi avranno avuto, una volta o l’altra, la sensazione che, navigando in alcuni siti, le pubblicità presenti nella pagina fossero a conoscenza dei nostri gusti o delle nostre ricerche recenti. Ovviamente non è un caso, ma si tratta di chiari esempi di marketing comportamentale, o behavioral marketing. Sul web le tecniche di targetizzazione delle inserzioni pubblicitarie si stanno facendo sempre più precise e cercano di indirizzare i contenuti agli utenti conoscendo sempre più esattamente le loro propensioni ed esigenze. In altre parole, con questo metodo la pubblicità sa cosa cerchiamo e cosa vogliamo e ce lo propone senza che dobbiamo nemmeno chiedere.
Il marketing comportamentale funziona appunto sfruttando le tecnologie di tracciabilità delle operazioni dei navigatori online: attraverso l’analisi dei cookies, soprattutto, è possibile risalire al numero di visite a determinati siti, alle ricerche effettuate su Google, agli acquisti conclusi su certi e-shop, al tempo globale passato su internet ecc. Tutti questi dati vengono utilizzati per tracciare un profilo “pubblicitario” di ogni singolo navigatore, il quale viene inserito in appositi filtri e dunque viene raggiunto da advert appositamente pensati per le sue caratteristiche. Dunque è probabile che, se una persona visita spesso siti di cucina, troverà banner sparsi su altre pagine che suggeriscono prodotti legati al mondo alimentare; se un utente avrà acquistato un libro su Amazon, altre pubblicità su siti diversi gli proporranno libri simili o dello stesso autore.
Tutto ciò affina di molto la semplice induzione contemporanea applicata finora ai banner online che proponevano un prodotto basandosi sull’evidenza che il navigatore era su quel sito in quel momento e per un certo motivo (pubblicità di moda maschile su un blog che parla di auto, di cosmetici su un sito di un magazine femminile ecc.); essa diventa invece una deduzione storica, perché l’ambizione è quella di focalizzare la pubblicità sul singolo utente che in quel momento sta visitando una pagina "qualsiasi" in base a precedenti comportamenti di quello stesso individuo. Siamo dunque a un livello totalmente opposto rispetto alla pubblicità com’è sempre stata concepita finora: se si pensa agli spot, ai manifesti o alle inserzioni su stampa è ovvio che in quel caso l’ideazione è pensata per un pubblico ampio, magari definito con alcune caratteristiche ma non estremamente personalizzato, quindi la comunicazione è diretta in ogni caso alla “massa”. Con il marketing comportamentale, invece, si passa dal broadcasting su larga scala al narrowing, cioè alla descrizione sempre più puntuale del target da raggiungere: i sistemi informatici conoscono ormai le nostre caratteristiche, le nostre abitudini, le nostre inclinazioni.
A pensarci, questo tipo di approccio comunicativo è per certi versi ambiguo: promette un risultato praticamente ritagliato su misura della persona, ma ciò è possibile solo immagazzinando un numero molto elevato di informazioni sugli utenti del web. Dove sta però il limite della privacy durante la navigazione? Bisogna in effetti considerare il fatto che la maggior parte delle informazioni che questi metodi di marketing comportamentale incamerano sono trasmesse dalla nostra navigazione senza che diamo ogni volta un esplicito consenso. Negli Stati Uniti, dove questa strategia comunicativa è molto più diffusa e da più tempo, le organizzazioni federali si stanno muovendo verso una progressiva regolamentazione del fenomeno, anche se la soluzione è diretta più alla maggiore informazione degli utenti che a un blocco preventivo di queste tecniche. D’altronde una maggiore personalizzazione dell’advertising limita il fastidio invasivo di messaggi che non ci interessano e può anche essere un’occasione per venire a conoscenza di prodotti o notizie che rientrano in ogni caso nella nostra sfera d’interesse.