C’era una volta la pubblicità occulta, quando si cercava di camuffare all’interno di spazi non propriamente commerciali prodotti di marche note; venne poi una regolamentazione più serrata, ma anche più aperta alla contaminazione commerciale (in Italia ci ha pensato il Decreto Urbani del 2004), e fu così che nacque il product placement. Questo tipo di operazione, detta anche embedded marketing, prevede l’inserimento o il posizionamento di prodotti in un’opera cinematografica o televisiva a fronte di un pagamento da parte dell’azienda che viene pubblicizzata. Ci sono varie tecniche per inserire marchi in film o programmi tv: c’è lo screen placement, in cui i loghi o i prodotti vengono chiaramente inquadrati durante le riprese; più efficace è lo script placement, in cui i prodotti vengono inseriti nella trama coinvolgendo anche i protagonisti o le vicende narrate (quando ad esempio un protagonista lavora in un determinato negozio, oppure la storia si svolge in un’azienda particolare); ancora il plot placement prevede che tutta la vicenda si svolga a partire o basandosi su un particolare prodotto, arrivando perfino al name placement in cui la marca è piazzata all’interno del titolo (basta pensare a Gran Torino o a Il diavolo veste Prada).
Il product placement si rivela molto efficace per svariati motivi: innanzitutto fa vedere il prodotto all’opera nel suo contesto di utilizzo e inserito nella vita di tutti i giorni, aumentando la familiarità dello spettatore con esso; inoltre facilita la memorizzazione del brand e influenza le scelte dei consumatori: un test effettuato nel 1990 su giovani spettatori che avevano appena visto il film Mamma, ho perso l’aereo!, in cui il protagonista beve bicchieroni di Pepsi, prevedeva che i ragazzi scegliessero fra lattine di Pepsi e lattine di Coca Cola, con l’effetto che la prima bibita risultò la preferita.
Il cinema è fin dalle origini il campo di applicazione prediletto per il product placement: una delle prime applicazioni degli inventori della settima arte, i fratelli Lumière, fu proprio quella di filmare, alla fine dell’Ottocento, gli operai in uscita dalla loro stessa fabbrica. Da quel momento in poi le aziende dimostrarono un’attenzione precoce sulle potenzialità delle inserzioni commerciali nei film: uno dei pionieri del cinema contemporaneo, Fritz Lang, nel 1931 inserì nel suo film M trenta secondi in cui inquadrava il cartellone pubblicitario di una marca di gomme da masticare. Basta poi pensare alla saga di 007, in cui i marchi di lusso citati (Aston Martin, Martini, Omega ecc.) contribuiscono a formare l’allure di un protagonista indimenticabile, con lo scopo di trasmettere questo fascino anche agli spettatori-consumatori. Alcuni film hanno fatto la fortuna di alcune marche in particolare: alcuni esempi sono Ritorno al Futuro con le auto DeLorean, Top Gun con i mitici Rayban, C’è Posta per Te con il servizio di mail Aol.
Anche gli altri mezzi di comunicazione non mancano di sfruttare le potenzialità del product placement. Le serie televisive sono il modello che più si avvicina al mezzo cinematografico: un esempio lampante fra tutti quello della protagonista di Sex and the city, Carrie Bradshaw, sempre alle prese col suo macbook Apple e l’acquisto di costosissime Manolo Blahnik. In televisione anche i programmi si sono adeguati all’inserimento di prodotti commerciali: American Idol fu uno dei primi, inquadrando costantemente i giudici con di fronte un bicchiere extralarge di Coca Cola; o ancora, in Italia, pensiamo a Masterchef, il talent culinario in cui i prodotti alimentari sono ben inquadrati dalla regia. Allo stesso modo il product placement domina anche i video musicali: Lady Gaga è la regina anche in questo settore e nel suo videoclip per Telephone sono presenti ben sette marchi, fra cui la linea di cuffie Heartbeat da lei prodotta, il logo di Virgin Mobile e delle Diet Coke che la stravagante cantante pensa bene di mettersi in testa. Ci sono anche forme più disparate di inserimento commerciale: esistono anche il faux product placement, in cui vengono inventati marchi da inserie nel film (si pensi alla ditta tuttofare Acme dei cartoni animati) o il reverse product placement in cui marchi fittizzi utilizzati in opere di fiction vengono poi realizzati sul serio (la birra Duff dei Simpson, ad esempio), o perfino i casi di product displacement in cui un’azienda si rifiuta di inserire i propri prodotti in situazioni che potrebbero intaccare la propria immagine (lo fece la Mercedes con il film The Millionaire, convinta che le proprie auto non fossero adatte agli umili contesti della trama, non aspettandosi poi che il film avrebbe vinto un Oscar). Insomma, in qualunque sua forma, il product placement è ormai dilagante dappertutto. Film, video e programmi tv sono talmente pieni di marchi commerciali che quasi non ci facciamo più caso: ed è questo il segreto del suo successo.