Articolo tratto da Brands, it’s time to get moving: why action-oriented marketing is the way forward
Douglas Van Praet, autore di Unconscious Branding: How Neuroscience Can Empower (and Inspire) Marketing, afferma che gli esseri umani siano per lo più guidati dal movimento e dalla memoria; e che i migliori brand non si limitino a catturare lo sguardo dei consumatori, ma puntino a dare vita a delle vere esperienze.
In effetti, sebbene la maggior parte degli investimenti del settore pubblicitario sia diretta verso la creazione di annunci di stampo tradizionale, il consolidamento di un brand nella mente dello spettatore non avviene sottoponendolo a un bombardamento costante di immagini televisive e online da ricevere e assorbire passivamente; al contrario, si verifica attraverso una serie di interazioni ed esperienze umane autentiche e tangibili. Questo perché il nostro cervello è stato progettato per il movimento, come sostenuto da Daniel Wolpert, neuroscienziato: “Potrei affermare che se abbiamo un cervello è per una ragione precisa, cioè produrre movimenti complessi… Processi di tipo sensoriale, mnemonico e cognitivo sono molto importanti, ma lo sono in quanto portano al movimento.”
Non è dunque una sorpresa che, per molti millenni, in qualità di cacciatori e raccoglitori abbiamo percorso distanze di poco inferiori ai venti chilometri al giorno in cerca di cibo: le nostre menti sono predisposte a fare cose, non a guardarle.
Coinvolgere altre persone mediante l’azione fisica, invece che l’osservazione passiva, significa innestare l’attività neurologica passando per il sistema motorio, cosa che permette di imprimere l’immagine del brand in modo più marcato nella loro mente. Il vantaggio sta nella multisensorialità dell’esperienza fruitiva: non è più solo la vista insieme all’udito, ma si aggiungono tatto, gusto e olfatto; aumentando così gli strumenti a disposizione del nostro cervello per immagazzinare il ricordo nella sua parte inconscia, cioè quella che genera impulso e risposta.
I brand costituiscono delle aspettative basate sulle esperienze pregresse e sui ricordi di tipo euristico o vere e proprie scorciatoie per scegliere più facilmente e, quindi, vivere meglio. Daniel Kahneman, economista comportamentale, sottolinea che quando si tratta di prendere una decisione, è il ricordo stesso a decidere, non l’esperienza in sé. Non è infatti un segreto che i ricordi si modificano nel tempo e i sentimenti che associamo ad essi possono essere del tutto scollegati da ciò che è realmente accaduto.
I modelli di marketing partono dal presupposto che l’atteggiamento precede il comportamento, che è necessario prima di tutto modificare le credenze e l’immaginario collettivo per riuscire a vendere. Ma, come spiega lo psicologo Timothy Wilson: “Uno dei punti fermi della psicologia sociale è che i cambiamenti di comportamento spesso precedono quelli di atteggiamento e sentimento.”
Quando passiamo ad un nuovo comportamento, razionalizziamo posteriormente le nostre azioni attraverso una dissonanza cognitiva, cercando di riconciliare il conflitto e il disagio tra le nostre vecchie idee e le nostre nuove azioni. Assegniamo una natura di causalità alle nostre nuove reazioni, spesso concludendo - erroneamente - che si sia trattato di una scelta consapevole, spinta da degli atteggiamenti stabiliti.
Generare nel pubblico consapevolezza riguardo le caratteristiche, i vantaggi e l’argomentazione unica di vendita (USP) di un prodotto a uno stadio superficiale dell’imbuto del marketing non è più sufficiente. Ora, è necessario concentrarsi sullo sviluppo di interazioni attive che ispirino una certa immagine del brand.
Tuttavia, in una situazione di frammentazione mediatica, i budget a disposizione vengono principalmente spesi per gridare e non per fare, con l’obiettivo di farsi sentire e distinguersi dalla mischia sempre più competitiva. Alcuni studi condotti in America del Nord hanno mostrato che ogni giorno veniamo sottoposti in media a 3000 annunci e che un normale supermercato vende mediamente 350 tipi di dentifricio!
Forzare il pubblico a subire passivamente un bombardamento di messaggi di tali proporzioni è però una tattica di disturbo che non può risultare vincente. Se l’obiettivo primario del brand è presentarsi agli occhi del consumatore come una scorciatoia che gli renda la vita più semplice, è forse giunto il momento di abbandonare l’approccio che vede il pubblico come un mero contenitore di dati e, finalmente, imboccare la strada della partecipazione attiva, la quale favorirà un sostanziale incremento della brand awareness.
Douglas Van Praet ha elaborato un metodo articolato in 7 punti per scoprire quali siano le forze in gioco per rendere un brand davvero efficace.
Puoi leggere i 7 punti cliccando qui.